Possiamo fidarci dei cinesi?

Potremmo chiederlo alla più giovane presidente del parlamento italiano che ha avuto una carriera politica brevissima per poi diventare imprenditrice e presidente dell’associazione Italia – Cina.

Due mesi fa e sembra una vita, si era battuta come un leone perché gli italiani non abbandonassero i ristoranti cinesi mostrando quella lealtà che bisogna dare agli amici nel momento del destino.

La sua storia personale ed il ruolo dell’associazione avranno sicuramente aiutato Irene P. a fiutare l’affare della vita, mascherine acquistate in Cina per 30 milioni di euro di cui un terzo in anticipo.

Una volta arrivate e distribuite una parte, si è scoperto che erano fallate e senza certificazione di conformità.

Irene P. è oggetto dell’attenzione dei giudici che indagano su materiali non conformi e certificazioni fasulle ma il mio amico Francesco R. mi ha assicurato che Irene è innocente. Ho chiesto a Francesco che vive da quelle parti se vi è qualcosa che non so, se conosce Irene o come si sono svolti i fatti, Francesco mi ha detto di no, che non conosce Irene ma conosce i cinesi.

Per Irene non ho mai provato simpatia, troppo mascolina e poi una carriera sulle tv commerciali una volta declinata la stella politica. Francesco invece mi è sempre stato simpatico, spiritoso con gli amici, molto serio e preparato sul lavoro, l’unica follia della vita la passione per una bellissima designer di Singapore che lo aveva portato in Oriente, aveva lasciato un avviato studio di consulenza a Milano ed io avevo perso il mio compagno di squash.

I racconti sulla Cina ed i cinesi sono interessanti, perché è un vero “altrove”, se è vero quanto diceva Sartre che “l’enfer c’est les autres” questa diversità potrebbe essere il nostro inferno.

Per quanto abbia ascoltato tante storie sulla Cina, ne ho fatta una collezione da alcuni amici che vivono laggiù da oltre venti anni, ho capito che Francesco aveva qualcosa da dirmi ed io non aspettavo altro.

Francesco aveva una solida esperienza in certe bio tecnologie farmaceutiche che gli avevano consentito di trovare un buon lavoro a Singapore, la fine della storia con la bella designer lo aveva portato nel cuore del sud est asiatico, da bon vivant era finito a vivere a Bangkok di fronte alla casa di Terzani sulla Sukhumvit, dove le giornate di lavoro sono intense, ma le notti dolci e profumate.

“Ho conosciuto un gruppo di cinesi di Shenzhen ad una fiera del settore, sono diventato loro consulente per un progetto, poi ci siamo scritti per mesi ed incontrati un’infinità di incontri tramite video conferenze ma anche nei miei uffici di Sathorn. I cinesi erano interessati alle mie competenze, più che ai miei soldi”, mi dice Francesco, “era stimolante e così ho deciso. Ci sono migliaia di storie che raccontano di occidentali che hanno avuto problemi in Cina, il vecchio Forchielli che non abita lontano da me a Bangkok, ha fatto una fortuna raccontando le loro sofferenze ed è per questo che sono stato accorto in tutte le fasi, della costituzione della società, ai patti parasociali ed ogni cosa, avevo la consulenza del miglior studio legale del Guangdong. Sapevo che non era facile associarsi a soci tanto più solidi e per di più in Cina, ma avevamo bisogno uno degli altri e tanto basta”.

“Erano i primi anni di Xi ed il settore farmaceutico era stato oggetto di una sostanziale riorganizzazione normativa avvicinando gli standard cinesi al livello globale. Ricordo anni duri di lavori in una città orrenda dove i bambini hanno tanto piombo nei polmoni come in nessun luogo al mondo, ma ero dove succedevano “cose” e tutto era velocissimo. Poi un giorno abbiamo trovato un venture capitalist pronto ad investire su un nostro brevetto, erano passati quasi quattro anni, il giorno dopo ho scoperto che mi avevano fatto fuori. Ho dovuto cedere le quote perché per me non c’era più posto e mettermi di traverso non mi avrebbe portato da nessuna parte, il resto sono tutte belinate, ma il peggio doveva ancora arrivare.”

“L’accordo raggiunto per la mia uscita era insoddisfacente, comportava la restituzione del capitale investito ed una modesta remunerazione, nulla a che fare con i profitti futuri, ma qualcosa meglio del nulla che rischiavo di ricevere. La procedura di pagamento e del trasferimento all’estero dei capitali richiede un sistema complesso, dopo la trattativa privata vi sono quattro diverse organizzazioni governative che devono licenziare la transazione e tutto questo dura almeno otto mesi (il modello del pagamento è in copia), nel mio caso sembra che la catena si sia interrotta una volta e tutto debba ricominciare da capo, colpa o dolo e difficile sapere. Sono passati quasi un anno e mezzo e non ha ancora ricevuto nulla.”

Francesco parlerà a breve con il suo avvocato cinese, dice che ha buone possibilità di vincere la causa, ma il meccanismo è chiaro, oltre ai soci di Shenzhen riportare capitale di rischio fuori dal paese è ostacolato dalla burocrazia degli uffici.

“Sai qual è la cosa buffa”, mi dice Francesco, “i cinesi non hanno perso il gusto per il tazebao maoista, chi non paga i propri debiti verso lo stato o le banche, vede il proprio nome affisso negli aeroporti e nelle stazioni come ammonimento e scherno, una vera e propria gogna mediatica che i cinesi amano tantissimo, il debitore non può più prenotare un treno o un aereo, diviene un reietto”.

“Mi chiedi se ci si può fidare dei cinesi?”, conclude Francesco, “se non sei cinese non puoi fidarti dei cinesi ed io non sono cinese”.

4 maggio 20

 

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