Antonio Riva fu lasciato morire senza che il governo italiano facesse un singolo piccolo gesto per salvargli la vita.

Il pomeriggio il 17 agosto 1951, “a las cinco de la tarde” – quale triste coincidenza – fu ucciso con un solo colpo di pistola alla testa, per i cinesi voleva attentare alla vita di Mao Zedong.

La storia di Antonio Riva ritorna di tanto in tanto, anni fa la giornalista Barbara Alighiero, per anni inviata Ansa dalla Cina, gli dedicò un romanzo “L’uomo che doveva uccidere Mao”, che raccontava la vita e la morte di un eroe di guerra del novecento italiano. 

Nato a Shangai nel 1896, da Achile e Teresa Barbaran Capra originari di Gorgonzola e commercianti di seta italiani in Cina, crebbe dove nacque e dai cinesi imparò lingua e costumi. Tornò in Italia a completare gli studi superiori e da volontario prendere parte alla prima guerra mondiale.

Diventò pilota di caccia, fu amico di Francesco Baracca l’asso dell’aviazione e si mostrò tanto abile nel volo da ottenere sette vittorie nei duelli aerei tra cui Julius Kowalczik. Finita la guerra gli fu conferita una medaglia d’argento al valore. Fascista in un tempo in cui quasi tutti lo erano, tornò in Cina dove si sentiva a casa, si faceva chiamare Li Andong.

Galeazzo Ciano, al tempo ambasciatore italiano a Shangai, lo introdusse ai vertici del governo nazionalista di Chiang Kai-shek. Riva fu tra i creatori dell’aereonautica militare cinese, insegnò il volo e l’arte della guerra ai primi piloti di Pechino.

Quando i comunisti assunsero il potere non abbandonò il paese e non si curò di chi suggeriva di fuggire. Finì arrestato insieme ad altri disgraziati, tra cui un prete italiano ed un giapponese, con un’accusa tanto bislacca che a raccontarsi suscita sorpresa. Si disse che avrebbero voluto attentare a Mao Zedong con un vecchio mortaio arrugginito che aveva in casa e che utilizzava come porta ombrelli.

Nessuno si mosse per quel vecchio fascista in Italia dal passato troppo scomodo, mentre i comunisti cinesi potevano mostrare al mondo che mettevano a morte un innocente per il fatto di essere straniero. La stagione dell’umiliazione coloniale poteva dirsi alle spalle.

La famiglia Riva fu espropriata di tutti i beni. La moglie Catherine Lum, che era americana ed i quattro figli, rientrarono in Italia in nave ed in terza classe. Nessuno li attendeva a Genova al porto d’arrivo ed il figlio Montano ricorda che lo stato italiano richiese il rimborso dei biglietti.

L’affaire Riva cadde nell’oblio per molti anni. La signora Riva Lum trovò un impiego nel consolato americano di Genova e li crebbe i propri figli. Saranno il già citato libro della Alighiero ed un successivo di Marco Riva, figlio di Antonio, che riporteranno alla luce questa tragica storia.

Montano, uno dei suoi quattro figli, dichiarò in una bella intervista a Stefano Lorenzetto per il Giornale nel 2008:

Perché per 57 anni lei ha taciuto?
«Non solo io, anche i miei fratelli Marino, Maria e Marco. Chi ci avrebbe creduto? Avremmo dovuto scontrarci con quelle che mia zia Eleanor chiamava “le anatre della pace”».
Che significa?
«Vede, la sorella di mia madre aveva sposato un diplomatico inglese, sir Colin Crowe, che fu capo della delegazione del Regno Unito all’Onu e trattò la pace con l’Egitto. Dal 1950 era stato mandato a Pechino. Quindi la zia avvicinava gli stranieri, soprattutto giornalisti, che arrivavano in Cina e ne ripartivano convinti che il comunismo di Mao fosse “diverso”. Alcune “anatre della pace”, come Renata Pisu, inviata di Repubblica in Estremo Oriente, le ho conosciute anch’io. Nel 1980, quando tornai in Cina con una delegazione commerciale, a casa dell’addetto militare dell’ambasciata italiana incontrai Tiziano Terzani. Indossava la giacchetta delle guardie rosse abbottonata fino al collo».
Ma poi Terzani fu espulso dai cinesi.
«Sì, ufficialmente per contrabbando. In realtà fu cacciato perché aveva cominciato a indagare sull’odissea di mio padre. Il che lo riscatta dal punto di vista dell’onestà intellettuale».

16 settembre

 

 

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