“Rodrigo Duterte”, mi dice Jill Rodrigo segretaria di un’associazione di self help filippina. “Il presidente è un grande uomo, ha fatto tanto per il paese e per la povera gente, noi siamo con lui”. Jill vive a Milano da oltre venti e lavora come domestica in un palazzo del centro.
Il presidente non potrà presentarsi alle prossime elezioni, perchè la legge consente un solo mandato e potrà concorrere solo al ruolo di vicepresidente della figlia, che correrà per la presidenza. Meglio dire dovrebbe, perché ad inizio settembre pur essendo in vantaggio in tutti i sondaggi, Sara Duterte sindaco di Davao si è sfilata dalla competizione, almeno per il momento.
Jill Rodrigo pare quasi seccata dalla legge sul singolo mandato e dalla prudenza della figlia, “Sara Duturte deve partecipare alle elezioni, mai visto nelle Filippine che una figlia non faccia quello che vuole il padre, che è un sant’uomo e sarà un grande vicepresidente.”
Inutile chiedere oltre ad una supporter di Duterte circa gli umori della grande comunità filippina di Milano e provincia, che consta oltre cinquantamila persone.
Duterte iniziò il suo mandato con una campagna di esecuzioni sommarie di piccoli delinquenti per le strade di Manila. L’Occidente si scandalizzò, non la maggior parte dell’opinione pubblica filippina che pareva sollevata da quella strage. La potente chiesa cattolica locale insorse, ma il caudillo alzò le spalle e dichiarò che del Papa, come degli americani non gliene importava nulla. Duterte voleva privilegiare i rapporti con Pechino e mettere in discussione i tradizionali legami con gli Stati Uniti.
Dopo tante promesse gli investimenti cinesi non sono arrivati e le cannoniere di Xi Jinping hanno consolidato la propria presenza nel mar cinese meridionale in acque filippine, i pescatori di Manila cacciati in malo modo dalle tradizionali aree di pesca.
Sara sua figlia è rimasta sempre filoamericana, tutto diverso e tutto in famiglia. Verso la fine del 20 il presidente ha deciso di fare retromarcia, perchè corte suprema e l’esercito non hanno gradito la sua arrendevolezza verso la Cina. Duterte è animale politico di razza che fiuta i tempi e muta strategie. Molti ricordano che Duterte fu giovane comunista negli anni universitari, tuttavia nel 2017 arrivò ad offrire una taglia sulla vita di ogni militante comunista di 380 dollari.
In questi anni, il maggior oppositore di Duterte è stato un giudice emerito della corte suprema che risponde al nome di Carpio, ma la figlia di Duterte ha sposato un Carpio, mostrando che i destini di un paese possano decidersi in una cena di famiglia a Forbes Park a Makati. Pochi giorni fa, il potente ex giudice suggeriva un’alleanza elettorale composta dalla figlia di Duterte e dal figlio di Marcos, il vecchio presidente la cui moglie, si perdonerà una nota glamour, collezionava scarpe a migliaia.
Nel merito, gli anni di Duterte hanno portato risultati modesti al paese, l’indice di democrazia è sceso, la corruzione aumentata, la crescita economica al netto degli anni della pandemia è stata modesta, la scelta di acquistare vaccini cinesi disastrosa come la gestione sanitaria del Covid, il terrorismo delle regioni islamiche del sud non è stata sconfitto, la coesione sociale minata alla basa dalle politiche da giustiziere della notte e l’opera della chiesa cattolica, da sempre un pilatro della società, minata alla radice.
A dispetto di tutto, Duterte è popolare e correrà alle elezioni di vice presidente. Se eletto, sarà il più ingombrante “secondo” della storia filippina.
La popolarità di Rodrigo Duterte all’estero ricorda un altro grande autocrate contemporaneo: Recip Erdogan.
I turchi residenti in Germania lo votarono in massa per confermare una riforma costituzionale illiberale nel 2017, quando ad Istanbul la sua credibilità era in caduta. In Austria il successo di Erdogan fu addirittura maggiore ben oltre il 70% dei voti, Claudio Magris ricordava che chi vende giornali agli angoli delle strade di Vienna, la assediava pochi secoli fa con un potente esercito.
La nostalgia del proprio paese è un noto meccanismo dei figli della diaspora, che conduce chi vive lontano ad idealizzare il proprio paese piuttosto che conoscerlo. Un leader che si dichiara forte ed alza la voce con le maggiori nazioni della terra, regala qualche illusione a chi vive emigrato.
Non ne siamo immuni, ancora pochi anni fa scoprivamo busti bronzei di Mussolini, che campeggiavano nei caffè italiani di Buenos Aires e di Little Italy a New York.
1 ottobre