Nel titolo della copertina dell’Economist dello scorso 13 luglio: Trade without trust: how the west should do business with China, si descrivono una via ed un destino.
L’occidente guidato dagli Stati Uniti, altre opzioni sembrano lontane da qualsiasi agenda, sta mutando la propria visione nei confronti della Cina. La grande stagione della globalizzazione senza limiti si è conclusa in un laboratorio di Wuhan, ma anche prima dell’avvento del virus CCP (la denominazione primigenia è della testata Epoch Times e subito fatta propria dall’amministrazione americana), quando le contraddizioni di sistema erano giunte ad un punto di rottura tanto sorprendente quanto visibile.
La geografia della produzione del valore si è allontanata gradualmente dall’occidente atlantico, ed in alcuni paesi in modo più drammatico che in altri, generando nuove ricchezza, frontiere e padroni.
Lo stesso Economist nel suo manifesto del 175 anni edito nel 2018, ricordava che per la prima volta dopo una crescita che si riteneva senza fine, i genitori di un bambino a Stoccarda, Montreal o Parigi avranno difficoltà ad offrire le stesse opportunità ricevute dai padri.
La grande stagione del populismo declinato nelle diverse forme e specificità nazionali ha incarnato questo disagio e malessere, riducendo la moderna complessità a formule elementari per l’elettorato più semplice ed arrabbiato, quello “Make America great again” di Trump, i Brexiter di Johnson, “Prima gli Italiani” dei partiti nazionalisti nostrani ed l’avversione a strumenti comunitari come il Mes.
Il processo di decoupling, o disaccoppiamento dalle produzioni e catene della produzione del valore sarà estremamente lungo e complesso, richiederà forse tanti anni anni quanti è costata questa fase della globalizzazione a direzione opposta, ma rimane la linea rossa che sarà perseguita chiunque vinca le elezioni americane e dal blocco dei paesi europei, a dispetto dei tentativi di pechino di costruire un’inedita ed improbabile allenza con la Eu.
Tra le ultime azioni di governo dell’amministrazione di Abe in Giappone, abbiamo il contributo dallo stato nel riallocare le produzioni di aziende giapponesi ora in Cina a casa madre o altri paesi dell’area Asean per 2,25 ml di dollari.
Prevedibile che alla Cina, dopo venticincinque anni di sinofilia, non verranno più fatti sconti su un libero mercato che oggi è spesso condizionato dal furto di proprietà intellettuali, sui temi dell’inquinamento, del mancato rispetto degli standard dei diritti dei lavoratori e di quelli dell’individuo, delle libertà politiche e la persecuzione delle minoranze etniche.
La stagione di Trump, da molti definito da alcuni rozzo ed impreparato, che venga rieletto o meno, ha confermato che due volte al giorno un orologio rotto da l’ora giusta e lo sforzo compiuto per ridefinire le regole della produzione e del commercio globale sono inevitabili per le esigenze di politica interna amaricana, ma anche per ridare nuova forza e dignità allo spirito fondante delle società liberali e l’obiettivo di conciliare sviluppo e giustizia sociale.
Il modello attuale non garantisce crescita un efficace ascensore sociale o così la fabbrica delle aspirazioni, il vero motore delle società liberali, ma anche la conseguente stagnazione della produzione ed una pressione fiscale sempre più opprimente. Il processo di globalizzazione avrà correzioni di direzione e questo comporterà la creazione di nuovi paradigmi ed una nuova fase, la lezione di Davide Ricardo sulla produzione di vino e tessuti sarà buona anche per la prossima stagione, ma avremo una nuova esperienza per poter cercare partners in Oriente.
26 settembre 20