We should uphold the common values of humanity, namely peace, development, equity, justice, democracy, and freedom, rise above ideological prejudice, make the mechanisms, principles, and policies of our cooperation as open and inclusive as possible, and jointly safeguard world peace and stability.
Dobbiamo sostenere i valori comuni dell’umanità, vale a dire pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà, elevarci al di sopra dei pregiudizi ideologici, rendere i meccanismi, i principi e le politiche della nostra cooperazione il più aperti e inclusivi possibile e salvaguardare insieme il mondo pace e stabilità.
Bob Kennedy?
No. Sono le parole del segretario del partito comunista cinese Xi Jinping all’incontro virtuale di Davos della scorsa settimana. Nessuna ironia, non è necessaria, ma queste parole del leader cinese sono state condite da altri pensieri più veritieri.
Xi Jinping ha dichiarato che non esiste un primato morale dell’occidente sui diritti umani, che ogni paese ha la sua storia e può decidere legittimamente quale governo darsi, che la globalizzazione è un processo irreversibile e la Cina è pronta ad accettare la sfida.
Napoleone Bonaparte suggeriva da dimenticarsi della Cina e di lasciarla dormire. Non sarebbe una cattiva idea, se il popoloso pachiderma non si fosse svegliato e richiedesse più spazio vitale, risorse e crescita. La Cina gode del credito dai maggiori analisti geo politici occidentali, noi manteniamo un atteggiamento più prudente. Il prodotto interno lordo è cresciuto negli ultimi trent’anni per gli investimenti esteri ed è sostenuto da grandi opere pubbliche. Il problema demografico – esito della decennale politica del figlio unico – sarà alle porte del prossimo decennio al pari della vecchia Europa ed il risveglio dell’Occidente e del Giappone, riporterà produzioni e capitali a casa propria (DECOUPLING).
Xi Jinping teme il processo e minaccia una nuova guerra fredda, se qualcuno mettesse un freno alle ambizioni cinesi.
Le dichiarazioni ricordano quanto Pechino sia dipendente dal mondo occidentale e nei numeri fragile. Il suo mercato interno consuma sempre poco ed ha un reddito pro capite di soli 10.000 dollari annui.
Xi Jinping può dichiarare che la Cina ha deciso la propria via, dandosi regole e governo, ma non può dichiarare la condivisione a principi di equità e democrazia, contro ogni evidenza, per minimizzare le critiche. Rimangono sullo sfondo problemi insoluti.
Il principio del commercio equo o fair trade vuole che i giocatori condividano regole semplici. La Cina non rispetta le regole dei brevetti industriali e dei marchi ed opera dumpinp sul costo del lavoro. Interi gruppi etnici non sono solo privati dalla loro cultura, identità e religione – Xi Jinping direbbe ancora che sono affari loro – ma lavorano in schiavitù rinchiusi in campi di lavoro, faccenda davvero spaventosa e si tratta di milioni di persone.
Per molto meno si sono mandate truppe in Africa e si bombardò Belgrado. La realpolitik ci consiglia di non inviare gli F 35 sui cieli di Pechino, ma il dumping sociale cinese non appare eliminabile, perchè è la ragione ultima della sua competitività.
L’Occidente potrebbe non porsi il problema tra principi ed opportunità (il peggiore tra gli errori), ma alla complicità di chiudere gli occhi sui crimini contro l’umanità, avremo false opportunità. I mercati cinesi sono chiusi e falsati nella competizione.
Alcuni dati per tutti, la Cina ha un differenziale tra export ed import di ben 1,43 trillioni di dollari a proprio favore. Pechino vale solo il 2,8% delle esportazioni italiane, per intenderci meno del piccolo Belgio ed il deficit commerciale statunitense è di 283 miliardi di dollari nel 2020.
Nota bene, la più grande operazione mediatica sull’apertura del mercato agro-gastronomico italiano in Cina, effettuato dal governo italiano Conte e dal ministro degli esteri Di Maio, ha portato la vendita di 162.000 euro di arance in Cina, non credo siano sufficienti ad acquistare un bilocale nella periferia milanese.
I beneficiari di questi anni della globalizzazione sono stati la Cina e le multinazionali del Nasdaq, che hanno finanziato l’internalizzazione dei processi di creazione del valore e profitti. Pechino è stato vista come l’opportunità in un mondo più vasto ed interconnesso ed in perenne crescita, ma la valutazione è stata sbagliata. L’errore dell’occidente è stata ritenere che il mercato avrebbe reso più equo e trasparente il regime, illusione questa senza fondamenti.
Credere alle parole del segretario del partito comunista cinese vuol dire soccombere, accettare che il predone diventi padrone delle nostre vite e che un modello autoritario del capitalismo della sorveglianza si affermi in occidente.
La nuova amministrazione Biden ha compreso il punto di svolta, e segue la linea rossa tracciata da Trump (ma non lo dirà mai). Tra le prime iniziative la portaerei Roosevelt nel mar della Cina meridionale a difesa di Taiwan ed il motto “buy american” come nuova religione di stato. Ad esempio, gli oltre 600.000 autoveicoli green ed americane, per sostituire il parco automobili dell’amministrazione dello stato federale.
Lo stesso partito democratico da sempre fautore del globalismo selvaggio e oggetto di finanziamenti delle grandi corporation ha dovuto, a malincuore (?!), invertire rotta. I settanta milioni di americani che hanno votato Trump, non sono bianchi pochi istruiti che vedono erodersi il proprio privilegio. Sono una fascia di lavoratori che vede liquefarsi il proprio mondo, il lavoro e le aspettative di mandare un figlio al college. Questi settanta milioni sono i lavoratori americani dell’economia tradizionale che importa dalla Cina, che non vive e prospera delle nuove tecnologie e della green economy.
In Europa, l’altro grande Occidente, le cose non sono differenti e l’analisi sulla sofferenza del mondo del lavoro tradizionale è sovrapponibile. Circa un quarto degli elettori della comunità europea scelgono partiti che vogliono porre limiti al libero commercio, ma la questione è ben più ampia delle dichiarazioni dei partiti nazionalisti.
Samuel P. Huntigton nel classico “The Clash of civilisation” scriveva di faglia di civiltà, dove il conflitto non si determina per l’economia – o esclusivamente, aggiungiamo – ma per la cultura costitutiva di mondi diversi. Questo è il punto centrale. Dobbiamo pensare prima alla nostra gente, ai nostri valori e civiltà, al nostro mondo di uomini, lavoro e delle imprese, dove abbiamo regole condivise e dove possiamo competere e crescere da uguali.
Nel passato abbiamo sanzionato paesi per crimini minori e perseguito stati predoni, oggi ridurre l’influenza della Cina è necessità vitale. Il processo durerà una generazione ed il processo non sarà lineare, ma complesso e soggetto a continui spinte e rallentamenti. Si sosterranno costi per le ritorsioni cinesi e perdite per le aziende che hanno stretto accordi con Pechino, ma l’Occidente non ha altre scelte.
Xi Jinping farà a modo suo e pagherà le conseguenze con la nuova muraglia cinese costruita da noi, per non fare uscire un singolo ago a sconto dal loro lager fatto nazione.
1 febbraio