C6H4O3 ovvero la formula chimica del carbone.
A dire dei più – pochi ne dubitano – il principale responsabile del riscaldamento del nostro pianeta per effetto dell’emissione di CO2, ovvero il diossido di carbonio, un ossido acido formato da un atomo di carbonio e due di ossigeno.
Inevitabilmente il consumo del carbone è stato il tema principale dell’ultimo Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021, conosciuta anche come COP26 che si è svolta a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, sotto la presidenza del Regno Unito.
Tra i risultati della conferenza sul clima, si è stabilito che è necessario di ridurre le emissioni di CO2 fino al 45% nel 2030 ed abbatterle a zero per metà secolo. Il compromesso delude i paesi ricchi, che oltre al tema della sostenibilità hanno bisogno di una rivoluzione verde per rivitalizzare le loro economie, “We are changing the economic system” pronunciato da Mario Draghi, ma paiono eccessivi per i paesi emergenti tra cui la Cina e l’India, che fanno grande uso del carbone. Il capo delegazione cinese Xie Zhenhua, ad esempio, ha enunciato il principio di responsabilità “differenziate” dei diversi paesi, riconoscendo che l’Occidente ha beneficiato del carbone per decenni ed ora è la Cina, che sostiene il maggior costo della transizione ecologica, rinunciando alle più economiche risorse fossili.
I numeri riportati da Eni circa l’utilizzo del carbone valgono più di tante parole.
“Questo combustibile mantiene una quota del 38% sul mix energetico, e la tendenza alla crescita è evidenziata dal fatto che gli impianti termoelettrici appena inaugurati nel mondo sono per il 40% ancora basati sul carbone.
Se confrontiamo i consumi registrati nell’ultimo anno con quelli precedenti, il declino osservato per USA (quasi 17 miliardi di tonnellate in meno) e per la Germania (oltre 9 in meno), Ucraina (-7) e Regno Unito (-4), Colombia (-2), viene abbondantemente compensato da Indonesia (+6), Cina e Russia (ciascuna con +10). A questi, si è aggiunta la Corea del Sud (+16) mentre il colpo finale è arrivato dall’india, dove il boom industriale ha comportato il consumo di quasi 40 miliardi di tonnellate di carbone in più.
Secondo il rapporto IEA, la domanda mondiale di carbone non scenderà almeno per i prossimi cinque anni perché il calo del 13% previsto sia nell’Unione Europea che negli Stati Uniti, non sarà uguagliato da diminuzioni analoghe per Giappone, Corea e Cina, che caleranno solo del 3%. Anche in questo caso, l’aumento percentuale maggiore sarà nei Paesi del sudest asiatico (+39%) seguiti in questa triste classifica dall’india (+26%).”
Gli obiettivi della guerra ai mutamenti climatici sono sullo sfondo delle fibrillazioni del costo dell’energia durante la pandemia Sars Covid, terreno di scontro tra Cina ed Occidente. L’ultimo capitolo di questo conflitto si scrive nel continente australe. La Cina nel 2020 aveva protestato duramente con il governo di Camberra. Intollerabile ai cinesi la richiesta di un’indagine indipendente sull’incidente di Wuhan, insopportabile le prese di posizioni degli australiani sul mar cinese meridionale ed i diritti umani e politici degli abitanti di Hong Kong.
La Cina ha quindi iniziato una guerra alle importazioni di prodotti australiani, consapevole di essere il maggior mercato di sbocco dell’Australia con importazioni pari a 185 miliardi di dollari americani. L’Australia ha retto bene all’embargo cinese trovando nuovi mercati ai propri prodotti, dalla carne rossa, all’orzo, al vino, ai materiali ferrosi, fino all’oggetto del nostro articolo, il carbone, aumentando le esportazioni in India ed in Arabia Saudita, ma oggi, la Cina deve fare un precipitoso passo indietro tornando ad acquistare il carbone australiano.
La Cina ha problemi energetici maggiori di altri grandi potenze – altrove abbiamo scritto di come gli Stati Uniti hanno raggiunto un’indipendenza energetica – interi distretti industriali cinesi hanno dovuto interrompere la produzione, alcune città si sono ritrovate al buio, ponendo dubbi sulla capacità di Pechino affrontare indenne la guerra energetica derivata dal Sars Covid.
Rimane un ultimo tema, la Cina negli ultimi anni aveva investito in quella che viene chiamata “soft power”, diffondendo la lingua e la cultura cinese attraverso gli istituti Confucio, finanziando le università, acquistando squadre di calcio in Europa e diritti televisivi sportivi, offrendo giornali in lingua inglese gratuiti, favorendo lo sfruttamento femminile e la prostituzione nei paesi occidentali e tant’altro (si ricordi quando Mao Zedong offrì agli statunitensi 10 milioni di donne).
Oggi la simpatia per la Cina in Occidente è in caduta libera, ne abbiamo conosciuto l’opaca gestione del virus di Wuhan, le scorrette pratiche commerciali ed industriali, il mancato di rispetto dei diritti umani e politici, le leggi speciali sulla sicurezza di Hong Kong, le operazioni militari nello stretto di Taiwan ed ora l’insensibilità ai temi dell’ambiente e della sostenibilità.
Non sarà il film “One second” del maestro Zhang Yimou, in uscita nelle sale italiane nei giorni di Natale a cambiare il corso degli eventi.
16 dicembre
Country-level public approval of China has fallen to surprisingly low levels in many parts of the world. (Source: “Global Attitudes and Trends, 2014-2018,” Pew Research Foundation. Map by Jin Yongai and Xie Yu.)