Onorevoli deputate, onorevoli deputati,
uno degli insegnamenti che abbiamo tratto da questa guerra è che avremmo dovuto dare ascolto a chi conosce Putin. Ad Anna Politkovskaya e a tutti i giornalisti russi che hanno denunciato i suoi crimini, pagando con la vita. Ai nostri amici in Ucraina, Moldova e Georgia e agli oppositori in Bielorussia. Avremmo dovuto dare ascolto alle voci all’interno della nostra Unione, in Polonia, nei paesi baltici e in tutta l’Europa centrale e orientale. Ci dicevano da anni che Putin non si sarebbe fermato. Loro hanno agito di conseguenza. I paesi baltici si sono impegnati a fondo per affrancarsi dalla Russia. Hanno investito nelle energie rinnovabili, nei terminali GNL e negli interconnettori. Si tratta di investimenti onerosi, ma il prezzo della dipendenza dai combustibili fossili russi è ben più alto. Dobbiamo porre fine a questa dipendenza in tutta l’Europa.
Così Ursula Von Der Leyen presidente della commissione europea, stretta in un vestitino giallo e blu in onore dell’Ucraina, al discorso sullo stato dell’Unione Europea pronunciato lo scorso settembre.
Belle parole e toni accorati, grande eloquenza ma dovremmo chiudere gli occhi e tapparci le orecchie con le mani come fanno i bambini. Commerciare con regimi illiberali ed autocrati è stata la politica economica perseguita con consapevolezza, di cui si discute da anni nei dipartimenti di politica estera delle maggiori cancellerie ed è materia di studio nelle facoltà di dottrine politiche delle Università.
Ricordiamo che Von Der Leyen è stata una fedelissima di Angela Merkel. Ministro dal 2006 al 2019 ha ricoperto i ruoli di ministro della famiglia prima e poi della difesa autorizzò la vendita di armi di produzione tedesca ad Arabia Saudita e Turchia, non certo due campioni dello stato di diritto.
Meglio ha fatto la sua padrina, nota bene il neologismo, una rediviva Angela Merkel intervistata lo scorso giugno da Alexander Osang dello Spiegel al Berliner Ensemble Theater spinta dalla necessità di dare spiegazioni e lettura della sua Ostpolitik e Mosca.
Libera dai vincoli dello status del politico in attività, la promotrice del “Wandel durch Handel”, ovvero il postulato che annuncia il raggiungimento di standard democratici attraverso i commerci e gli affari, non ha rinnegato le scelte della dipendenza energetica alla Russia. Merkel ha difeso la sua politica estera, negando ogni responsabilità di aver sottovalutato la crescente dipendenza dal gas russo. Ha dichiarato che era consapevole che uno dei propositi strategici di Putin era indebolire l’Europa e l’Occidente, ma soprattutto ha ammesso che la dottrina del commercio come veicolo di democrazia e partecipazione non avrebbe funzionato in Russia. Merkel ha descritto Putin come un uomo che «comprende solo il linguaggio della forza», un’affermazione che vale il segno del fallimento della Ostpolitik della Große Koalition di Merkel e Schroeder, già presidente del consorzio russo tedesco Nord Stream 2.
Naturalmente la Merkel non è sola, perchè la dottrina del “Wandel durch Handel” ha permeato l’Occidente mercantile e globalizzato dell’ultimo ventennio, tra verità ed opportunismo. Il consolidamento di catene della produzione del valore con le maggiori autocrazie hanno garantito bassi costi ed elevati profitti a dispetto di equità, accesso ai processi democratici e diritti sindacali ai lavoratori nei paesi manufatturieri e dapauperando il tessuto produttivo e coesione sociale in Occidente.
L’energia russa ma anche automotive tedesco prodotto in Cina, dove il gruppo Volkswagen gestisce più di 30 stabilimenti e raccoglie il 40% delle vendite e dei profitti al pari di BMW e Daimler.
La frase il capitalista “Venderà la corda con cui sarà impiccato” è attribuita a Lenin. Vero o falso che sia del pensiero del rivoluzionario rimane vivo il concetto e poco oltre la salma in bella vista trattata per i posteri sulla Piazza Rossa.
La lezione russa mescola le carte sui tavoli del commercio globale. Il cancelliere Olaf Scholz, che si era lamentato delle violazioni dei diritti dell’uomo nello Xinjiang, sarà in Cina con un gruppo di imprenditori a novembre mentre l’Occidente che parla inglese mostra maggiore scetticismo. Biden parla della Cina come la grande sfida strategica del secolo a venire e la premier del Regno Unito Liz Truss è prossima ad dichiararla minaccia strategica.
Finanza globale e produzione si intrecciano in un gioco complesso gestito da classi politiche nazionali che guardano a casa propria ed alle prossime scadenze elettorali.
Un ultimo capitolo della saga è scritto dal bizzarro imprenditore Elon Musk – che vale da solo l’influenza di un paese di media potenza – proprietario di tecnologie satellitari che hanno consentito agli ucraini di combattare i russi e primo fornitore della Nasa, ma anche di Tesla, il primo brand della mobilità elettrica, che ha raggiunto da poco il primo milione di autovettura prodotte in Cina. Negli ultimi giorni Musk ha suggerito un ritorno alla Cina del libero stato di Taiwan, con un accordo bilaterale simile al trattato di restituzione di Hong Kong alla madre patria, raccogliendo il plauso di Pechino e poco importa se Taiwan non comprerà più un’autovettura Tesla.
Forse non finiremo impiccati ma siamo nei guai.
14 ottobre