La caduta della fragile democrazia birmana ha sorpreso solo i distratti.
Alcuni mesi fa scrivemmo dell’impossibilità di fare a patti con il diavolo – i militari al potere dal 1962 – senza venirne travolti. Era una facile profezia. I militari avevano concesso libere elezioni, ma avevano mantenuto il 25% dei seggi nelle due camere dei rappresentanti e la titolarità dei maggiori dicasteri (difesa, interni, confini). Le recenti elezioni di fine 2020, avevano confermato la maggioranza assoluta dei seggi al partito di Aung San Suu Kyi, grazie ad un sistema elettorale uninominale di tradizione inglese, rendendo le cose più evidenti e complicate.
In questi anni Aung San Suu Kyi aveva cercato di mediare tra il potere dei militari e la complessa società civile birmana, formata da oltre un centinaio di gruppi etnici. Oltre a ciò, la sua figura rappresentava un elemento di apertura al mondo e di garanzia per gli investimenti esteri, cosa che risultava attraente al Tatmadaw, l’esercito birmano, che da solo drena un enormità pari al 4% del Pil del paese.
La leader pacifica e democratica di cui si era innamorato l’occidente è rimasta sola. Criticata per non aver alzato la voce contro lo sterminio di una minoranza islamica birmana senza terra e diritti, e finendo addirittura a processo presso il tribunale dei crimini contro l’umanità. Oggi la San Suu Kyi ha 75 anni. E’ anziana e provata da anni di prigione e di arresti domiciliari, ha governato senza essere riuscita ad erodere il potere dei militari, che non hanno mai abbandonato il controllo del paese. Indebolita di fronte al mondo quanto amata nel suo paese, la parabola politica della San Suu Kyi si conclude nel suo arresto. La Cina e la Thailandia, i vicini ingombranti, hanno alzato le spalle augurandosi che il colpo di stato non abbia conseguenze sui civili. I cinesi hanno messo il veto su qualsiasi condanna dell’Onu, la Thailandia ha un governo militare ed il medesimo meccanismo di controllo del 25% dei seggi in parlamento. Tony Blinken, il nuovo segretario di stato statunitense, ha dichiarato la propria indignazione e promette sanzioni, ma Washington è tanto lontana che vale meno di un battito di farfalla a Yangon.
Qualsiasi cosa succederà alla San Suu Kyi è difficile ipotizzare un suo ennesimo ritorno, forse se tutto andasse per il suo meglio, un ruolo di madre nobile del paese. Ipotesi improbabile, perché la dittatura birmana attraversa quasi sessant’anni di storia del paese, quasi fosse una dinastia senza una famiglia regnante.
Tra il 1995 ed il 1996, per la durata di oltre nove mesi, la leader birmana concesse una lunghissima intervista confessione al giornalista americano Alan Clemens, che divenne il libro “La mia Birmania”, che rimane a distanza di tanti anni la testimonianza più sincera del suo pensiero.
“Quando parlo di rivoluzione dello spirito, mi riferisco alla nostra lotta per la democrazia. Ho sempre sostenuto che una vera rivoluzione deve nascere dallo spirito. Bisogna essere convinti di aver bisogno di un cambiamento e di voler cambiare determinate cose, non solo quelle materiali. Occorre un sistema politico ispirato a determinati valori spirituali, valori diversi da quelli del passato”.
5 febbraio 2021