Nella giornata del 16 di novembre è stato firmato The Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo di libero scambio tra un gruppo di nazioni composto da 10 paesi del sud-est asiatico, oltre a Corea del Sud, Cina, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Nelle dichiarazioni si prevede che l’RCEP eliminerà una serie di tariffe sulle importazioni entro 20 anni, il trattato comprende anche materie come i servizi finanziari, le proprietà intellettuale, telecomunicazioni, servizi professionali ed il commercio elettronico.

I singoli paesi hanno già accordi tra di loro e l’Asean rappresenta una realtà consolidata, ma il nuovo accordo consentirà accordi più ampi di libero scambio e sarà concessa la creazione di nuove filiere di creazione del valore, con l’abbattimento di dazi tra le nazioni partecipanti, ad esempio un prodotto potrà avere componenti costruiti in diversi paesi senza che debba essere pagato un dazio tra un paese manifatturiero e l’altro.

Gli Stati Uniti e l’India erano usciti dall’accordo, il primo per arginare il crescente espansionismo cinese nell’area e la seconda per la tutela dei produttori nazionali.

Il RCEP sarà presto ratificato dai paesi firmatari e avrà effetto, contribuendo alla ripresa economica post-COVID pandemica”, ha detto Nguyen Xuan Phuc, primo ministro del Vietnam, concludendo che “il RCEP rappresenterà il 30% dell’economia globale, il 30% della popolazione mondiale e raggiungerà 2,2 miliardi di consumatori”

In un’area di mondo soggetta a forte tensioni sui confini, Spratley, Paracel, sfruttamento degli idrocarburi nel mare della Cina meridionale, Mekong river ed all’interni dei singoli paesi con disordini ed instabilità spesso indotti dai paesi confinanti, Myanmar, Thailandia, Malesia, Filippine, Indonesia ed Hong Kong, l’accordo realizza l’ipotesi della “pax mercatoria” espressione coniata nel 2000 nell’articolo “Pax Mercatoria: Globalization as a Second Chance at “Peace for Our Time” di  Jim Chen, un professore americano di legge della Michigan State University College of Law in cui sostiene che i vantaggi della globalizzazione e dei mercati possano produrre stabilità di sistema “In the public sphere,pax mercatoria represents the peace dividend that develops when free trade makes nations too busy and too rich to fight”  “Nella sfera pubblica, la pax mercatoria rappresenta il dividendo della pace che si sviluppa quando il libero commercio rende le nazioni troppo occupate e troppo ricche per combattere”.

Chen sostiene che il mercato sia dotato di una forza primordiale capace di eliminare le ragioni di scontro per il raggiungimento di un beneficio comune. Abbiamo qualcosa da obiettare alle tesi di Chen, le nazioni sono composte da persone che creano società, non sono entità neutre e vuote votate ad una crescita materiale e all’accumulazione di capitale, al contrario le nazioni sono entità complesse ed in divenire, almeno in occidente, perché dotate di identità e cultura, abbiamo la certezza che il mercato non risolve – de facto –  i problemi propri della rappresentanza, della giustizia sociale e le nuove sfide ecologiche e dell’ambiente.

Elisabeth Lasch-Quinn, de l’University of Minnesota Law School è andata addirittura oltre, affermando che l’idea di Chen di ridurre la cultura a elemento negoziale o addirittura “meme”, ovvero una consuetudine o credenza autonoma in conflitto con altre, detiene un principio darwinista che appartiene alla biologia e non alle relazioni umane.

Se anche si dovesse accettare la teoria della Pax Mercatoria, potremmo constatare che il modello è falsato dal mancato rispetto delle regole da parte dei partecipanti. In un profetico articolo dal titolo “China must fix the global currency crisis” sul Financial Times dell’ottobre del 2010, George Soros sosteneva che la gestione della valuta cinese ancorata al dollaro e sotto lo stretto controllo delle autorità centrali, consentiva al governo di tagliare in modo sostanziale il profitto derivante dalle esportazioni, gestendo in modo diretto le eccedenze valutarie.

Soros concludeva il suo articolo sostenendo che la Cina avrebbe trovato ragionevole rivalutare la propria moneta, aumentare i consumi interni e le importazioni, in una parola aprirsi al mondo ed alla cooperazione internazionale.

Oggi la valuta cinese è allo stesso valore di dieci anni fa, le importazioni cinesi sono cresciute del 20% quando il GDP è più che raddoppiato, quindi possiamo dire che l’aspettativa di Soros è stata infranta dai fatti.

La Cina incarna perfettamente lo stato autoritario “pesante” del novecento, che norma, vigila e sanziona sulla base di una visione che definisce etica del proprio sviluppo, che si contrappone all’idea dello stato “leggero” liberale e di diritto. L’abilità della Cina è stata chiedere a gran voce di partecipare al libero mercato tra le nazioni, conscia di avere le carte truccate perché il mercato interno è rigidamente controllato.

Alle timide critiche, la Cina ha sempre risposto sollevando le spalle e mostrando indifferenza, affermando che sono faccende di casa loro che gestiscono come meglio credono, ma il libero mercato per funzionare pretende che vi siano regole sia nel commercio internazionale ma anche a casa dei singoli paesi. La debolezza dell’Occidente è stato ritenere che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate da sole, che la Cina si sarebbe aperta alla libertà d’impresa, ai diritti civili ed alla rappresentanza democratica.

Ignorare che lo stato cinese operi a casa propria da giocatore e non da garante rende il gioco iniquo, ora è il tempo per mettere in discussione tutti questi anni di apertura di credito alla Cina e di sinofilia dilagante, il governo centrale di Pechino impone il libero commercio internazionale per sostenere la propria crescita e la propria volontà egemonica, ma controlla i flussi finanziari delle esportazioni drenando i profitti delle esportazioni e manipola i mercati valutari, non apre i suoi mercati interni e non rispetta gli standard internazionali di mercati e brevetti.

 “L’idea della globalizzazione dell’ultimo quarto di secolo è fallata e dovrebbe essere corretta, perché nessuno di noi pensa che se ne possa fare a meno”, mi dice Marco già Ceo di una multinazionale con esperienza di oltre venticinque anni in Cina, che ha una gran voglia di raccontare la sua verità, “i maggior beneficari sono stato lo stato cinese e le prime 50 multinazionali quotate al Nasdaq, le quali alla fine si assomigliano perché bastano a loro stessi, non rispondono a nessuno e sono tra loro i più stretti alleati, si pensi ai giganti del web e la prudenza che mostrano verso la Cina operando censure preventive su questioni scottanti come i diritti civili e politici.”

L’ordine globale pone la crescita del commercio globale e finanziario come obiettivo, si rinuncia agli standard di sanità e sicurezza dei singoli paesi, il quali perdono porzioni importanti della loro sovranità a favore di un sistema finanziario globale che ha scritto le regole da solo, senza nessuna legittimità democratica. Ricordo che nel 1994 Peter Sutherland, segretario del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) affermò che i governi avrebbero dovuto intervenire il meno possibile nella gestione del commercio.

Doppio assalto alla rappresentanza, da governi illiberali ed autocratici e da multinazionali tanto potenti da non vedere mai tramontare il sole sui propri domini. Per questo l’accordo del libero scambio non è la bella notizia attesa, la Cina è un giocatore che bara, le multinazionali mietono profitti senza controlli delle autorità nazionali ed eludono le tassazioni degli stati e due miliardi e duecento milioni di persone coinvolte dall’accordo, vengono definiti consumatori e non cittadini, dal primo ministro di un paese periferico e socialista come il Vietnam.   

26 novembre

 

 

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