Se lo scimmione ha un bazooka in mano è colpa nostra, lo abbiamo lasciato fare ed ora abbiamo i nostri problemi da risolvere. L’animale non ragiona ed è tanto simile a noi che crede di esserci uguale, ma essendo uno scimmione neppure conosce il peso delle conseguenze, anzi ha un caratteraccio ed è prepotente per natura, perché nel suo mondo non si discute, si urla e si minaccia.
La pianificazione cinese nasce da un regime politico sbagliato ed è caratterizzato dalla scarsità di risorse per una popolazione numerosa, lo raccontò bene Tiziano Terzani. Le cose sono cambiate, quando dalle produzioni agricole i cinesi hanno cominciato a pensare alla crescita industriale ed a capire che non erano in grado di fare da soli chiedendo a noi, e non più ai russi.
La modernizzazione del paese nasce nel 1978, aprendo all’internalizzazione del paese all’economia di mercato con tassi medi di crescita di oltre il 13% annui nei successivi trent’anni.
Nel 1979 vennero introdotte le Special Economic Zone (SEC), ovvero delle zone (tra le principali Shenzen e Guangzhou), in cui le aziende che ricevevano investimenti esteri beneficiavano di importanti benefici fiscali. Nel 1985, ampliarono i progetti con le Economic and Trade Development Zone (ETDZ), con lo scopo di attrarre investimenti nei settori dell’elettronica di consumo e nell’informatica. La grande stagione dello sviluppo cinese ebbe poi seguito nel 1995 con le High Technology Developed Zone (HTDZ), con l’intento di sviluppare ed incrementare le attività di ricerca e sviluppo cinesi attraverso gli investimenti esteri.
La principale caratteristica di queste HTDZs è rappresentata dal sistema di sviluppo “tre in uno”, ogni area comprende un polo di ricerca universitario, un centro d’innovazione per l’innovazione tecnologica ed imprese che producono i beni e li commerciano.
Secondo uno studio effettuato nel 2017 da Mike Enright, presso l’Università di Hong Kong e finanziato dalla Hinrich Foundation, si mostra come in quarant’anni le imprese straniere hanno investito nell’economia cinese 3.000 miliardi di dollari e creato 210 milioni di posti di lavoro.
I flussi degli investimenti stranieri sono cresciuti da una media di un paio di miliardi di dollari l’anno negli anni ‘80 a più di 110 miliardi di dollari all’anno negli ultimi dieci anni, ed Enright ritiene che le imprese industriali straniere nel 2013 rappresentavano il 33% del Pil cinese e il 27% dell’occupazione.
Secondo l’opinione di Enright, “La Cina negli ultimi 35 anni probabilmente ha beneficiato degli investimenti esteri più di qualsiasi altro Paese al mondo ed è riuscita a ottenere questi benefici […] senza cedere sovranità o soffrire il dominio straniero”.
Tra le follie di questa “economia di mercato pianificata” la Cina è davvero un’anomalia, come descritto nel bell’articolo di Giovanni Baer “Fra Stato e Mercato. L’ossimoro cinese” pubblicato da Sinistra in rete.
Secondo l’autrice, “La Cina ha intrapreso da tempo la via della privatizzazione, questo non è in discussione. Tuttavia, il modo migliore per caratterizzare il processo cinese è classificarlo come una privatizzazione tattica: Pechino non ha mai abbracciato la privatizzazione come obiettivo politico in sé e per sé, ma come uno strumento al servizio di uno scopo più ampio. Uno degli obiettivi del PCC è sicuramente mantenere il controllo politico, e il mantenimento del controllo politico, a sua volta, richiede il mantenimento del controllo economico dei settori vitali dell’economia, La privatizzazione tattica non ha ridotto il potere dello Stato cinese, anzi lo ha finanziato e reso più intelligente.”
Sempre incauto Occidente, analogo problema quando garantimmo agli arabi per il loro petrolio uno vecchio schioppo, ma oggi chi toglie il bazooka allo scimmione?
14 luglio 20